articoli e traduzioni di apicoltura
Apicoltura, sviluppo industriale ed ambiente: cosa sta succedendo in America? Parte prima
di Gabriele Milli
Uscito in Apitalia
Come tutti sappiamo, da marzo a settembre l’apicoltura è una professione che raramente concede il tempo di potersi dedicare alla lettura, anche se si tratta dell’American Bee Journal. Così, alla fine di settembre, quando mi sono rilassato un pochino, il 2002 dell’ABJ era tutto da scartare; e la sorpresa per la novità è stata ancora più grande. Cinque articoli da gennaio a luglio interamente dedicati: primo, all’urgenza ormai non più in alcun modo eludibile di eliminare o ridurre al minimo strettamente indispensabile l’uso della chimica in apicoltura, per evitare l’autodistruzione; secondo, alla necessità di individuare immediatamente una forma completamente nuova di sviluppo industriale apistico che consenta di recuperare le quote di produzione, gli spazi di mercato e i margini di utile perduti. I cinque articoli, per un totale di battute complessivo ben superiore ad un intero numero di ApiatiA, sono a firma di Carl J. Wenning, uno degli articolisti più prestigiosi dell’ABJ; e i primi tre hanno come titolo “Reduced Chemical Beekeeping” (fare apicoltura con un ridotto uso della chimica) e gli altri due “Sustainable Beekeeping” (fare apicoltura in modo economicamente sostenibile).
Cosa sta succedendo in America? Perché l’ABJ, che fino a pochissimo tempo fa era su posizioni quanto più lontane si possa immaginare da quella che in Europa si potrebbe chiamare un’apicoltura condotta con metodi biologici, si sta impegnando in maniera così massiccia in una campagna così radicalmente “alternativa” che nell’estabilishment americano ha dell’incredibile? Poiché potrebbe sembrare una mia esagerazione, e poiché riassumere o sintetizzare farebbe perdere quasi completamente il carattere drammatico della situazione denunciata da Wenning, credo sia utile tradurre direttamente ampi stralci degli articoli, accompagnandoli con note a margine che servano a chiarire o accennare spunti di riflessione utili anche per noi. Premetto solo che ciò di cui si parla non sono tecniche, ma considerazioni in primo luogo “umane”, nel senso che riguardano la vita dell’uomo come specie, convinzioni raggiunte dopo esperienze nodali e capaci di orientare le tecniche e decidere quali direzioni prenderà lo sviluppo: sostanzialmente etica, se non politica nel senso “alto”, di etica della città e non dei partiti. Inoltre questa è un’ottima occasione per verificare il punto al quale sono arrivati gli americani su tutte le questioni che sono nodali anche in Europa, come varroa, peste americana, nosema, o produttività e margini di utile in apicoltura; e le sorprese non sono piccole.
Ma veniamo al dunque. La più grande novità in apicoltura degli ultimi anni, scrive Wenning, è stata affidarsi interamente alla chimica per risolvere i problemi sanitari connessi alle malattie delle api. “Molti, se non la maggior parte degli apicoltori di oggi, si aspettano che l’industria chimica crei un più grande arsenale di agenti chimici sempre più potenti per combattere parassiti e malattie. Sfortunatamente, questi apicoltori non sembrano essere consapevoli delle conseguenze associate ad un uso prolungato della chimica”. Inoltre, e con un danno ancora maggiore, alcuni sono andati così oltre da “somministrare trattamenti chimici illegali che non sono mai stati pensati o autorizzati per l’uso negli alveari”. Ma se si guarda la situazione sul lungo termine, ci sono aspetti negativi veramente “sfortunati”; e “uno dei peggiori prende la forma della microevoluzione – il graduale adattarsi delle specie bersagliate a insetticidi e antibiotici. Il risultato è pestilenze e malattie resistenti ai trattamenti.” Non ci sono alternative, e che sia detto così chiaro sull’organo ufficiale dell’apicoltura americana, dovrebbe far seriamente riflettere.
Ma ancora più chiaro risulta dall’analogia che Wenning fa con la situazione delle malattie umane. Per non parlare dell’HIV, il virus responsabile dell’AIDS, “nuove specie di agenti patogeni che causano malaria, stafilococchi e epatite si stanno evolvendo sotto la pressione dei trattamenti chimici, e stanno diventando sempre più virulenti e difficili da combattere. Alla fine l’arsenale chimico naturale usato per prevenire e trattare le infezioni si esaurirà.” Gli scienziati non sono ottimisti sul fatto che saremo capaci di sviluppare trattamenti chimici efficaci al ritmo con il quale avviene la microevoluzione degli agenti patogeni; e nel prossimo secolo dovremo aspettarci un ritorno di pestilenze incurabili. Dovrebbe far riflettere altrettanto seriamente che la cultura media dell’establishment americano, perché questo è l’ABJ ed è per questo che è di estremo interesse, sia arrivata alla consapevolezza di lanciare un simile grido di allarme, che non lascia spazio a incertezze o alternative: il punto di arrivo di questa strada è l’autodistruzione. Ed anche l’apicoltura ne è un esempio.
“Usare la chimica per trattare le malattie dell’ape da miele ultimamente ha solo forzato la mano dell’evoluzione, e alla fine sia gli apicoltori che le api si troveranno ad essere perdenti. Il punto centrale della questione è che lo spiegamento dei trattamenti chimici che gli apicoltori usano oggi fallirà”. Più chiaro di così non si potrebbe, e se viene scritto in modo tale da risultare la posizione ufficiale non di un articolista ma dell’ABJ, che vive anche della pubblicità delle case produttrici di trattamenti chimici per malattie delle api, vuol dire che il problema non è più l’interesse economico di questa o quella parte, ma la sopravvivenza della stessa apicoltura. “Ci deve essere, continua Wenning, un modo migliore per rispondere alle minacce contro l’apicoltura che non sia la creazione e l’uso di agenti chimici sempre più forti e pericolosi. Ci sono tecniche comuni che gli apicoltori possono impiegare per minimizzare l’uso di pesticidi e antibiotici, e continuare a difendere le loro api dalle devastazioni di pestilenze e malattie.”
Ma prima ancora di illustrare che cos’è la proposta di “fare apicoltura con un ridotto uso della chimica”, l’autore ci spiega con estrema chiarezza perché questo accade. Ed bene riportarlo, perché lo stesso meccanismo potrebbe ripetersi anche con i trattamenti bio. Siamo tutti sulla stessa barca, ed anche se il biologico è sicuramente un passo in avanti, per lo meno come consapevolezza, non c’è nessuna sicurezza o garanzia; e infatti già qualcuno inizia a ipotizzare un accorciamento della fase foretica della varroa come risposta dell’acaro all’uso del timolo. Comunque rimaniamo per ora al meccanismo generale.
“I trattamenti chimici di qualsiasi forma sono raramente efficaci al 100%, specialmente quando agiscono da soli”. E porta l’esempio ormai classico del fluvalinate. “Quando il 95% degli acari in un alveare era eliminato, gli apicoltori erano felici del risultato. Tuttavia, quegli acari che erano sopravvissuti passavano nella loro mappa genetica una più larga porzione di discendenti capaci di sopravvivere ai futuri trattamenti con l’Apistan.” E l’autore sottolinea che “Il processo evolutivo promosso dall’uso dell’Apistan è stato solo accellerato dal suo cattivo uso. (…) Fino a che prevenzioni o trattamenti realmente efficaci non saranno identificati e realmente disponibili, gli apicoltori che usano la chimica nei loro alveari per combattere pestilenze e malattie continueranno a soffrire dei danni della microevoluzione.(…) Ed anche se trattamenti più potenti saranno sicuramente disponibili in un futuro non troppo distante, questo produrrà solo una più alta pressione selettiva sulle specie bersagliate ed avrà come risultato un tasso più grande di microevoluzione. ” E fino qui la novità consiste nella chiarezza e nella consapevolezza assolutamente insolite e non comuni, perché posto così il problema riguarda tutta l’apicoltura, ma proprio tutta, nessuno escluso; e tanto più questo è importante perché viene detto sulla fonte più autorevole ed ufficiale che esiste a livello mondiale. Non è poco; ma la considerazione immediatamente successiva del nostro autore, mi sembra così innovativa che le conseguenze pratiche per l’allevamento delle api non sono ancora immaginabili, se non in piccolissima misura.
“Come ulteriore riflessione, dovrebbe essere chiaro agli apicoltori che la sola soluzione possibile nel trattare efficacemente pestilenze e malattie nel loro alveari è fare affidamento su metodi che non selezionino una crescente resistenza nelle specie bersagliate”. E’ da notare e da considerare attentamente che l’autore dice “metodi”, e non trattamenti. E per “metodi” si intende qualsiasi pratica apistica di controllo sanitario degli alveari: qualunque esse siano e a qualsiasi principio anche etico o morale rispondano, esse devono evitare in qualsiasi modo di provocare microevoluzione. A pensarci con attenzione e responsabilità, se questa riflessione è veramente l’unica risposta saggia per il futuro, le conseguenze sono talmente innovative che l’apicoltura del domani non riusciamo neppure ad immaginarla. E personalmente ritengo questo principio una frontiera, un punto di non ritorno, finalmente la prima vera novità da quando è arrivata la varroa e il primo vero grande passo in avanti per tutta l’apicoltura. Non stiamo a fare inutili polemiche: finalmente abbiamo una meta credibile, e sono grato a Wenning di averla formulata. Se non si opera con la luce di una meta, si brancola nel labirinto del caso; e ancora una volta, che piaccia o non piaccia e nel bene e nel male, l’apicoltura americana conserva la sua posizione di leader mondiale: progetta la strada perché indirizza alla meta. Così è stato nell’uso della chimica, così nell’industrializzazione, così nell’apicoltura bio, che è solo un’applicazione pratica di modi di pensare se non proposte di vita alternative nate negli U.S.A. durante gli anni ’60 (ricordate Brautigan?), ed ora in quella che allo stato attuale si profila per come la risposta più sapiente al problema varroa, peste americana e nosema nei nostri alveari. Che piaccia o non piaccia l’America, (e non ho mai avuto particolari simpatie per gli imperi di qualsiasi natura, culturalmente mi sento molto come un celta, o un sannita, o un calabro durante l’impero di Roma), anche il 2.000 in apicoltura si apre con gli USA che tirano la cordata. E mi sembra un inizio veramente buono, perché propone un’industria che lega la ricerca dell’utile alla responsabilità verso l’uomo e la natura; e per ora la vedo come l’unica strada con un futuro veramente meritevole di essere costruito da subito, in primo luogo rovistando e riflettendo fra le soluzioni che caso per caso Wenning propone. Cercheremo di farlo le volte successive, e qualche sorpresa sarà veramente notevole; per ora terminiamo seguendo l’autore nelle sue considerazioni generali.
Wenning continua ricordando che i trattamenti legali ed efficaci stanno diventando sempre più cari; che è necessario non distruggere l’immagine del miele come del prodotto più salubre che esiste in natura; che è indispensabile evitare contaminazione della cera perché è una vera e propria spugna; che i trattamenti riducono di molto il periodo di raccolta del miele; che la presenza della varroa limita fortemente la produttività dell’animale, ecc., tutte cose che già purtroppo sappiamo molto bene. Ma per afferrare la gravità del punto al quale siamo arrivati, è utile riportare anche alcune informazioni perché chiariscono definitivamente i danni irreversibili che stiamo facendo, come ad es. con l’uso del coumaphos. E per “stiamo” intendo tutti quando siamo costretti a introdurre sostanze estranee all’alveare, anche quando ne siamo inconsapevoli o pensiamo che siano innocue perché ideologicamente le riteniamo più “pure”, benché ancora non sappiamo ancora come agiscono e le conseguenze future sull’animale.
Per rimanere al coumaphos è bene che tutti sappiano che questo principio attivo “impedisce il lavoro dei neurotrasmettitori”, (cioè la rete delle comunicazioni cerebrali), “cosa che alla fine conduce alla morte le creature che sono state esposte ad una dose sufficientemente grande.” Detto in maniera forse impropria ma efficace per capire: il coumaphos fa impazzire l’acaro. “L’idea che c’è dietro l’applicazione appropriata di questo prodotto chimico”, (così come di tutte le altre sostanze curative che usiamo nell’alveare), “è di introdurlo in una dose abbastanza bassa cosicché possa uccidere l’acaro varroa e il piccolo scarafaggio dell’alveare”, (un parassita non presente in Italia), “prima di uccidere l’ape da miele. Fortunatamente l’acaro e lo scarafaggio sono uccisi ad una dose più bassa di coumaphos di quella che è necessaria per uccidere l’ape. Ma rimane il fatto che il prodotto chimico è comunque dannoso per le api, anche se in misura più bassa.” E questa è la cosiddetta in gergo “polverina per cani”.
Per mettere a fuoco bene la gravità della situazione, è utile anche sapere che “l’uso del prodotto chimico coumaphos ha richiesto una temporanea sospensione dell’articolo federale 18 poiché è un organofosfato conosciuto per essere un azzardo ambientale”. Che è come dire che il suo uso, qualsiasi sia la quantità, produce una modificazione nell’ambiente che avrà comunque conseguenze negative non ancora conoscibili e quantificabili, e per questo azzardoso. Ma è utile anche ricordare che molto probabilmente gli interessi economici e i gruppi di potere che hanno forzato affinché si arrivasse alla temporanea sospensione dell’art. 18, sono quelli che stanno promuovendo una campagna di opinione nel settore che sicuramente in tempi più o meno brevi (e comunque necessari alla riconversione industriale) porterà ad una trasformazione radicale di tutta l’apicoltura.
Ciò risulterà ancora più chiaro seguendo Wenning passo dopo passo negli interventi successivi. Per nostra fortuna, sta succedendo in America qualcosa che è veramente incredibile. Già si incominciava a intravedere nel 2001, ma ora la situazione sembra essere finalmente arrivata a un punto di non ritorno. Altrettanto incredibile e inconcepibile per noi italiani, è pensare che una rivista abbia la forza per orientare così efficacemente lo sviluppo apistico, ma l’ABJ questa forza ce l’ha, e la usa. Come vedremo, Wenning si permette di scrivere a proposito di peste americana, varroa, nosema, politica governativa, ricerca scientifica, etica del settore, ecc., cose che tutti sappiamo ma nessuno di noi ha il coraggio di dire. Che gli anni ’80 siano finalmente finiti? Non oso sperarlo; ma sull’ABJ qualcosa di nuovo sembra essere finalmente iniziato.