articoli e traduzioni di apicoltura

Fare apicoltura oggi: il Casentino

di Gabriele Milli
Uscito in Apitalia.

L’idea che c’è dietro questa piccola inchiesta è individuare un’area geografica che permetta di vedere per grandi linee quello che è successo e sta succedendo in apicoltura: documentare il cambiamento (se c’è cambiamento) in tempo reale e le sue possibili linee di tendenza. Il fine, se possibile, è quello di mettere a disposizione per tutti storia, conoscenze, esperienze e riflessioni utili allo sviluppo aziendale di tutte le realtà che a qualsiasi titolo e con qualsiasi dimensione operano nel settore. Per motivi vari, fra i quali la logistica, abbiamo pensato un’area comunque centrale, sia geograficamente sia storicamente: il Casentino. Abbiamo chiesto la collaborazione dell’Associazione apicoltori delle provincie toscane, e ringraziamo in particolare il vicepresidente Enrico Gualdani per il prezioso aiuto organizzativo, e dell’Apicoltura Casentinese, per la quale ringraziamo in particolare Federico Maggi, uno dei fondatori dell’azienda oggi fra le leaders del settore. Ci siamo incontrati ad Arezzo nella sede dell’Associazione, ed erano presenti i titolari di aziende apistiche Daniele Andreani, presidente dell’Associazione della quale eravamo ospiti, Massimo Ciabini, Marco Giannini, Enrico Gualdani e Mario Gualdani (nipote e zio). Inoltre era presente Alfredo Provenza, Direttore dell’Unione Apicoltori, nella cui sede eravamo fisicamente riuniti. Federico Maggi, assente per impegni presi in precedenza, ci ha rilasciato una breve intervista. Diamo a parte una piccola scheda delle rispettive realtà aziendali, e ringraziamo tutti in primo luogo per la cortesia, la professionalità e il “calore” con il quale hanno risposto alla nostra richiesta. Tutto quello che abbiamo ascoltato era di estremo interesse, e ci scusiamo se per motivi di spazio riusciamo a riportare solo una piccola parte.

Ad iniziare dalla storia. Ma per chi non conosce il Casentino, è necessario un po’ di geografia. Il Casentino è un’ampia valle sul fondo della quale scorre l’Arno a partire dalle sue sorgenti sul monte Falterona fino a (più o meno) Subbiano, e delimitata a Nord dal crinale tosco-romagnolo (l’Alpe di San Benedetto), a ovest dal Pratomagno e ad est dall’Alpe di Catenaia. Il paesaggio è fra i più maestosi che si possa immaginare, non a caso è la sede di due fra i monasteri più importanti nel mondo: La Verna e Camaldoli; ed ogni volta che, venendo dalla Valmarecchia ed arrivando a La Verna, mi affaccio su questo enorme catino orlato da montagne che arrivano oltre 1500 m.t., rimango senza respiro e mi sembra di intuire perché Francesco abbia scelto questa come sede privilegiata per la contemplazione delle sue visioni. L’Appennino è sicuramente tutto bello, ma in alcuni luoghi raggiunge il sublime, e il Casentino è una delle sue vette più pure. Ma lasciamo la nota di colore, o la poesia, per tornare alla storia.

La nostra storia inizia più o meno negli anni 30, con alcune famiglie, i Gualdani, i Vangelisti, i Piccini, ecc., che iniziano a fare apicoltura in modo professionale. Prima della guerra erano 5/6 le famiglie che vivevano di apicoltura con 300/400 alveari, con una punta di circa 10 nel dopoguerra. Una presenza davvero significativa, dovuta più che altro al caso e all’esempio. In una zona di agricoltura molto povera, come sottolinea in particolare Maggi, è bastato che alcune famiglie come i Vangelisti e i Gualdani, riuscissero a praticare con successo l’allevamento delle api, con un ritorno economico più che soddisfacente e il conseguente prestigio sociale, perché questo funzionasse da volano. E così il Casentino è diventata una delle aree con più forte vocazione apistica, favorita poi dalla posizione geografica particolare e da quella che oggi si chiama la logistica.

L’area era caratterizzata da fioriture di lupinella molto estese e molto nettarifere, alle quali si aggiungeva il castagno e la melata di abete bianco, prodotta quasi solamente nelle foreste casentinesi. E’ da dire che castagno e melata fino a poco tempo fa non erano mieli molto apprezzati; ed è merito in particolare di apicoltori come Vangelisti e Gualdani, i primi a portare le api in foresta, se oggi in particolare la melata di abete bianco è conosciuta ed apprezzata come un miele straordinario in tutta Europa. Così l’apicoltura nel Casentino nasce subito con un forte istinto al nomadismo locale, su brevi distanze. Durante la sua crescita questo carattere originario viene favorito dalla particolare posizione geografica: seguendo la valle dell’Arno era facile scendere per seguire le fioriture del Valdarno, del pistoiese e del lucchese (oggi in particolare caratterizzate da ricchi pascoli di acacia); seguendo la Valdichiana, era facile accedere a tutte le fioriture oltre che della Valdichiana, del senese, della Maremma, dell’alto Lazio e della parte meridionale dell’Umbria; con poco si arriva in Maremma, (dove Massimo Ciabini ha addirittura trasferito la propria sede operativa), che è particolarmente adatta per invernare le api e per uno sviluppo precoce in primavera; la facilità dei passi di La Verna e di Viamaggio permetteva di raggiungere le allora generose fioriture di lupinella dell’alta Valtiberina e dell’alta Valmarecchia, e da qui poi trasferirsi al sud lungo la Valtiberina fino a Umbertide, Gubbio, ecc.

Lupinella, sulla, acacia, castagno, medica, girasole, melata di abete, melata di quercia, trifoglio, corbezzolo, macchia mediterranea, tutte le fioriture più importanti per l’apicoltura (esclusi gli agrumi e l’eucalipto), quelle che permettono di estendere la durata del raccolto durante la maggior parte della primavera e dell’estate, erano facilmente raggiungibili, e i casen ?tinesi le sfruttano subito modellando la loro apicoltura professionale sulle caratteristiche naturali del territorio ed operano ancora sostanzialmente in quest’area. L’unica eccezione oggi è l’Apicoltura casentinese, che ha una sede operativa molto consistente anche in Calabria.

Mario Gualdani, un settantaduenne con la passione e la tempra di un ventenne, una avanguardia per istinto, un innovatore e pioniere della meccanizzazione (si costruiva da solo disopercolatrici, pompe, si adattava gru, ecc. quando ancora in Italia pochi immaginavano l’uso della meccanica in apicoltura), ci racconta della fase eroica e un po’ romantica, da cercatori d’oro di frontiera, quando partivano la mattina a buio con due camion, uno dei quali attrezzato per la smielatura, e la sera tornavano a casa con il miele nei fusti. Allora, seguendo le varie fioriture si producevano in media sicuramente più di 100 kg per alveare posseduto. Un’azienda che possedeva 300/400 alveari era già una bella impresa professionale, ed oggi per avere lo stesso utile è necessario avere almeno 800/1000 alveari. Sembra di ascoltare un sogno, quando l’Andreani, i Gualdani e il Maggi ci raccontano che una singola fioritura (lupinella, girasole, melata, ecc.) poteva rendere anche 80/100 Kg di media. Si facevano gli sciami a primavera con le regine autoprodotte, e al castagno si smielavano, ci dice Andreani. E così è stato fino all’arrivo della varroa e alla trasformazione strutturale che ha investito il clima, l’agricoltura e il territorio. Ma su questo torneremo più avanti.

Per ora seguiamo l’apicoltura del Casentino nel suo sviluppo: è un esempio di quello che è successo un po’ in tutta Italia, se non nel mondo; e come i casentinesi dimostrano, uno sguardo lungo ed acuto nel futuro nasce dall’essere fortemente radicati nella propria storia. Anche agli ultimi, per così dire, “arrivati” si illuminano gli occhi, quando ci raccontano del loro passato; cose che magari conoscono per sentito dire, come quando Maggi ci dice portavano le api in Valdichiana con la bicicletta, o i ricordi d’infanzia di Enrico Gualdani, un giovane imprenditore apistico figlio d’arte, che andava alle api con il nonno prima ancora di andare a scuola. E se oggi sono tutte aziende solide e fiorenti, alcune delle quali in forte espansione e comunque con un futuro certo anche nella difficile trasformazione produttiva e di mercato, forse è anche per questo aspetto umano forte della memoria, che sembra debolezza agli sciocchi o agli avventurieri dell’ultima ora, mentre al contrario fortifica perché fonda su basi sicure l’esistente ed aggiunge quel respiro che sulla distanza fa la differenza.

Forse è il paesaggio che spinge naturalmente verso queste chiacchiere o riflessioni; ma è meglio non lasciarsi andare troppo alle debolezze del sentimento per tornare a dopo la guerra, con un bel gruppetto di aziende professionali, una decina, concentrato nello spazio di pochi chilometri. Ad un certo punto, verso l’inizio degli anni ’70, si trovano di fronte al dilemma di tutta le attività agricole: o industrializzarsi o morire. Cambia completamente il modo di lavorare. Certo, molta meno fatica fisica, ma iniziano ad essere necessari investimenti molto più consistenti. L’industrializzazione permette di affrontare il basso costo del miele con un innalzamento della produttività inimmaginabile: le aziende passano dai 300/400 alveari a miele fino a raddoppiare, triplicare o, come è il caso dell’Apicoltura Casentinese nata alla fine degli anni 70, andare oltre le 2500 famiglie in produzione. Il nomadismo, sottolinea l’Andreani, con i vari sistemi di pallettizzazione diventa più facile; una persona da sola con una buona attrezzatura può gestire una bella azienda (e Massimo Cia ?bini e Marco Giannini, nomadisti spinti che lavorano completamente da soli ne sono l’esempio); ma ci vogliono spalle molto solide, con investimenti complessivi oggi valutabili, per un’azienda sana e competitiva, a partire da 350/400 mila euro. Il rischio diventa molto più grande; e gli apicoltori si selezionano, oltre che per le capacità di allevatori di api e produttori di miele, anche, se non soprattutto, per le capacità imprenditoriali.

E’ un cambiamento che riduce drasticamente il numero delle aziende capaci di stare sul mercato. L’importazione selvaggia a costi bassissimi costringe ad aumentare al massimo la produttività per rendere gli investimenti remunerativi e quindi a dedicarsi esclusivamente all’apicoltura abbandonando completamente le attività agricole collaterali, come era caratteristico della fare precedente. Ad aggravare la situazione si aggiungono le trasformazioni strutturali dell’agricoltura, (come l’abbandono della montagna, la sostituzione delle culture tradizionali con altre più redditizie, la modificazione dei nuclei famigliari, ecc.), e le mutazioni climatiche che provocano un forte calo del potenziale nettarifero anche delle singole fioriture, iniziando ad abbassare la media annuale della produzione per alveare fino ad arrivare alla situazione attuale nella quale, a prescindere dagli ultimi due anni terribili, una media di 40 kg ad alveare facendo nomadismo è considerata buona. La maggior parte delle aziende sono costrette ad orientarsi verso il confezionamento e la vendita diretta del proprio prodotto come unica strada per la sopravvivenza.

Come è sempre nelle situazioni di crisi, alcune aziende cessano la propria attività, altre si trasformano e si ingrandiscono ed altre ci provano: aprono, si fanno largo, occupano o rilevano. Però se si considera che l’Apicoltura casentinese è una società di cinque soci con attività anche di falegnameria, una notevole produzione di sciami ed una fetta veramente molto consistente del mercato del miele invasettato, anche bio, a livello nazionale, il numero delle aziende scende ma, complessivamente, il numero degli imprenditori professionali forse aumenta così come il numero complessivo degli addetti, a conferma del fatto che quest’area ha una vocazione particolare per l’apicoltura. Vocazione tanto più da sottolineare per come all’inizio degli anni 80 (1984/85 precisa Maggi) supera l’altra prova difficilissima: la varroa. Ci dicono i Gualdani zio e nipote, che di questa continuità territoriale sono forse l’esempio familiare per eccellenza: prima l’apicoltura era andare a smielare e i problemi sanitari seri si riducevano a qualche caso di peste, che poteva anche presentarsi in forma molto virulenta, ma la situazione però era sempre sotto controllo. Con la varroa cambia tutto: la situazione sanitaria degli alveari diventa il primo problema produttivo.

Le aziende non sanno che pesci prendere, sono abbandonate a se stesse, si orientano e si barcamenano come possono con quello che trovano; e tutto sommato è stato facile fino a che l’Apistan ha funzionato, poi è stato sempre peggio. Chi viveva solo di apicoltura, sottolinea l’Andreani, è stato costretto a professionalizzarsi sempre di più: non c’è alternativa, anche come imprenditori, perché il rischio di impresa diventa molto, ma molto più grande di prima. Inoltre la varroa abbassa notevolmente la produttività per famiglia: gli alveari sono come depressi costantemente, hanno uno sviluppo molto più lento, sono molto più soggetti a tutte le malattie collaterali indotte o veicolate dalla varroa, che in forma più o meno virulenta si notano quasi continuamente; ed oltre ad incidere in maniera considerevole sul costo finale del prodotto, i trattamenti hanno effett ?i devastanti sulle regine. Si innesta un meccanismo di sostituzione continuo che prima non esisteva e in molti casi le famiglie che rimangono orfane non riescono a rifarsi da sole le regine oppure si rifanno regine che valgono molto poco; ma anche le regine che si comprano dagli allevatori, sottolinea in particolare Maggi, spesso non sono migliori e comunque non durano oltre una stagione. Inoltre si sta assistendo ad un aumento della sciamatura inimmaginabile prima della varroa: è diventata incontenibile, e probabilmente è una difesa naturale dell’ape nei confronti della varroa. Tutti notano che sta succedendo qualcosa ancora non esattamente valutabile: c’è in corso un cambiamento ed un indebolimento complessivo dell’animale che non si riesce ancora a capire bene e a controllare, e gli apicoltori si trovano ancora una volta a dover affrontare e risolvere da soli una situazione che sembra avere aspetti drammatici.

Per tutti fare apicoltura è veramente cambiato, e il cambiamento passato sembra niente di fronte a quello che dovrà ancora avvenire; ma è una sfida che tutte le aziende affrontano senza alcun segno di scoraggiamento. Fra il cambiamento in corso forse quello più significativo è il tentativo di rispondere all’uso crescente di antibiotici ed insetticidi in apicoltura con una gestione degli alveari condotta con metodo biologico. E su questo, come è naturale, le posizioni sono le più disparate e distanti fra di loro. Riportarle tutte è impossibile; e comunque ciò che emerge con chiarezza è che il “biologico”, oltre ad essere una risposta ad un mercato che tira, è la ricerca di un modo diverso di fare apicoltura, anche quando non è certificato, come precisa Enrico Gualdani. Probabilmente il bio è una fase di passaggio che condurrà a qualcos’altro ancora da scoprire. E’ significativo comunque che sono tre le aziende ?ad essere certificate: Massimo Ciabini, 400 famiglie, nomadista; Daniele Andreani, 800 famiglie, nomadista; La Casentinese, 2500 famiglie, nomadisti. Sono circa 3500 le faglie condotte con metodo biologico certificato, e se si aggiungono Marco Giannini (in conversione) ed Enrico Gualdani (bio non certificato) si arriva a circa 5.000 famiglie. E’ una percentuale altissima, che probabilmente non ha paragoni da altre parti, e non si spiega solo con il mercato.

In particolare è estremamente interessante che un’azienda veramente molto grande come La Casentinese decida di pagare comunque il prezzo di costi di gestione molto più alti ed una più bassa produttività degli alveari a fronte di un realizzo che non giustifica assolutamente il maggiore investimento. Certo, commenta Maggi, oggi è importante sempre di più avere un prodotto di qualità certificata e garantita, ma è stato ed è un cambiamento molto difficile. E’ necessario modificare completamente la mentalità, e con gli alti numeri di un’azienda come la Casentinese, le difficoltà erano “enormi, sembravano insuperabili, da far paura.” Gestire con metodo completamente nuovo, “a mani nude”, un’azienda di 2500 alveari in produzione ha comportato una riorganizzazione aziendale totale, ed anche oggi non si vede un ritorno economico che giustifichi il maggior lavoro, la maggior perdita di famiglie, l’essere esclusi da molti areali perché non sani dal punto di vista biologico, la difficoltà maggiore di reperire postazioni, la minore produttività per alveare, i costi non piccoli di certificazione, analisi, gestione burocratica e, non ultimo, lo stress che causa sulle regine l’essere sottoposte a trattamenti che devono essere molto più frequenti usando solo ossalico e timolo; anzi: forse questo è il prezzo più alto. Tuttavia, sottolinea Maggi, anche se i costi son ?o talmente alti che sopportarli è molto pesante se non quasi impossibile, l’Apicoltura Casentinese per ora continua su questa strada perché non vede altra alternativa credibile; e lo stesso si può dire di tutte le altre aziende.

Con questa apertura su un futuro che oggi si presenta molto più come ricerca che come certezza, a testimoniare un’apicoltura che non rinuncia alla tradizione di essere all’avanguardia ed aziende disposte ad investire nella ricerca anche a costo di un minor utile immediato ed un maggior rischio d’impresa, chiudiamo il resoconto del nostro piccolo viaggio all’interno dell’apicoltura nel Casentino. Non tiriamo alcuna conclusione perché non c’è conclusione, se non che l’estrema vitalità dell’area si conserva intatta e proiettata nel futuro oggi come era alle origini a conferma che la vocazione originaria ormai è un istinto negli imprenditori apistici della zona; d’altra parte qui come altrove, si sta aprendo una nuova fase, certa nella necessità ma ancora incerta nelle sue direzioni e negli sviluppi futuri. Il Casentino, con tutte le sue aziende, c’è, e da quasi un secolo a questa parte non perde una battuta.

Sarà l’ampio respiro che da il paesaggio e l’abitudine dei montanari a guardare il paesaggio dall’altezza delle cime e dei crinali, ma qui lo sguardo lungo si sente nelle parole di tutti gli imprenditori della zona; che non è la certezza di farcela, ma la sicurezza del camminatore di montagna abituato a camminare passo dopo passo sia nell’ombra cupa dei fondovalle stretti della foresta sia nel chiarore lungimirante delle vette. La stessa sicurezza che sentiamo nelle parole di tutti in questa valle, che un bel pezzetto di storia dell’apicoltura l’ha fatta, quando affermano con forza che “nel Casentino non hanno niente da invidiare agli americani”.

Schede delle Singole aziende

Daniele Andreani (Apicoltura Daniele Andreani)

Circa 800 famiglie in produzione, certificato biologico, nomadista, colloca la propria produzione per il 70 % all’ingrosso e per il 30 % al dettaglio.

Apicoltura Casentinese

Società di 5 soci e circa 15 dipendenti più qualche stagionale, certificata biologica, con circa 2500 famiglie in produzione a miele ed una intensa produzione di nuclei. Pratica il nomadismo, ha una sede operativa molto consistente in Calabria e commercializza anche il miele di altri apicoltori con una linea convenzionale ed una linea bio, per un totale di circa 10.000 ql all’anno invasettati. Commercializza materiale apistico di propria ed altrui produzione.

Massimo Ciabini (Apicoltura Massimo Ciabini)

Circa 400 famiglie in produzione, nomadista, certificato biologico, commercializza il prodotto quasi esclusivamente all’ingrosso.

Marco Giannini (Azienda agricola Il Bugno)

Circa 250 famiglie in produzione, in conversione al biologico, pratica un nomadismo molto spinto e vende la propria produzione tutta invasettata.

Enrico Gualdani (Apicoltura Ivo Gualdani)

Circa 1100 famiglie in produzione, nomadista, una produzione di nuclei molto consistente, vende il proprio prodotto tutto invasettato e commercializza anche miele di altri apicoltori.

Mario Gualdani (Apicoltura Mario Gualdani)

All’età di 72 anni ha circa 1300 famiglie in produzione, pratica ancora il nomadismo, e vende la propria produzione in parte invasettata e in parte all’ingrosso. E’ considerato la memoria storica dell’apicoltura casentinese.