articoli e traduzioni di apicoltura
La peste americana, l’apicoltura all’americana e il comportamnto igienico delle api (all’italiana)
di Gabriele Milli
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L’American Bee Journal, è sicuramente un grande giornale americano di apicoltura: usa un linguaggio comprensibile da tutti e non rinuncia alla qualità dell’informazione; giusta o sbagliata che sia la meta, (come e dove orientare il lettore), la persegue con una determinazione sconosciuta a noi europei; e nel mondo dell’apicoltura nell’epoca della globalizzazione è una fonte di informazione e documentazione insostituibile: così è anche un grande giornale di apicoltura.
Prendiamo l’esempio della peste americana e del comportamento igienico delle api. Le api hanno la capacità di riconoscere se la larva sotto gli opercoli è morta; e teoricamente se asportassero la larva morta prima che si decomponga in quella poltiglia filamentosa che tutti conosciamo, l’infezione non solo potrebbe arrestarsi ma addirittura regredisce e la famiglia guarire.(1) Le api selezionate per questo comportamento gli americani le chiamano “selecting bees for hygienic behavior” (HYG), ed è un’attitudine che aiuta molto nel controllo delle malattie della covata e sul lungo periodo può essere in parte la soluzione al dilagare della peste americana.
Perché sul lungo periodo e solo in parte? Il problema sembrerebbe infatti risolto, per lo meno teoricamente, se non ce ne fossero molti altri, alcuni dei quali perfettamente messi a fuoco da Steve Taber sul numero di dicembre 2001 dell’ABJ. Il nocciolo della questione è: perché l’apicoltura statunitense è arrivata per prima alla necessità di questo criterio di selezione? Scrive Taber: “Oggi l’industria apistica (Notare Bene: L’INDUSTRIA e non genericamente l’apicoltura) si confronta con questo problema perché per gli ultimi quaranta anni le api sono state nutrite con terramicina per reprimere il batterio che causa la peste americana. E così il batterio è diventato resistente a questa droga ed è stupefacente che ci sia voluto un così lungo tempo perché accadesse”. Chiarissimo: detto meglio non si potrebbe e vale non solo per gli U.S.A.
Si potrebbe aggiungere però che il problema non è nuovo, e neppure questa idea di soluzione, se già i Prof.ri Giordani, Vecchi e Nardi, nel loro insostituibile “Nozioni pratiche sulle malattie delle api”, scrivevano: “Nel 1934-35 negli Stati Uniti fu scoperto che esistono famiglie di api resistenti alla peste americana. Poiché tale preziosa qualità è ereditaria, cioè si trasmette dalle regine alle discendenti, è stato possibile selezionare, con opportune pratiche e seguendo procedure scientifiche e controllate, dei ceppi che la presentano in buon grado.” Quindi: nonostante che negli U.S.A. si lavora dal 1934 alla selezione di ceppi resistenti, fino ad ora l’unica soluzione su scala industriale è stata la terramicina.
E ancora: poiché la peste americana è sempre esistita ed esisteva un’industria apistica già da molto prima dell’uso massiccio degli antibiotici, ne consegue che l’attuale pesantissima infestazione dipende da una cattiva conduzione degli alveari sopperita da un uso progressivamente maggiore di terramicina. Certo: mantenere o recuperare margini di utile a fronte di una concorrenza spietata per il basso costo del lavoro e scorretta per l’assoluta mancanza di controllo su l’uso della chimica nelle sue forme più dannose, era ed è un problema di sopravvivenza. Ma l’uso di antibiotici ha dato per un po’ l’illusione che esistesse una scorciatoia, e ci si potessero dimenticare tutte quelle norme di corretta gestione e rispetto della biologia dell’alveare(2) che permettevano già ai primi del novecento un’apicoltura industriale ampiamente sviluppata; norme per altro già tutte evidenziate nel già citato “Nozioni pratiche sulle malattie delle api”. E oggi l’America ci insegna che la scorciatoia è un prezzo non più sostenibile ed è in discussione la possibilità stessa di fare apicoltura .
E infine: l’industria (N.B. L’INDUSTRIA) apistica, se vuole tornare a convivere in maniera economicamente accettabile con la peste americana, deve trovare dei modi per fare apicoltura senza antibiotici, o batteriostatici di qualsiasi natura e origine. Questi modi si possono chiamare come uno preferisce: biologico di per sé è solo una parola che significa “attinente alla biologia”(4); ma poiché sono necessari maggiori investimenti sia in lavoro che in danaro, deve essere possibile contemporaneamente aumentare i margini di utile. Se un’apicoltura più rispettosa della vita dell’animale non è anche più competitiva, cioè più redditizia, è una pura utopia; e, di conseguenza, è impensabile riportare l’infezione di peste americana a livelli fisiologici.
Detto questo per non rischiare di fantasticare su pii desideri, non c’è dubbio: gli allevatori dovranno introdurre anche in Italia fra i propri criteri selettivi anche il comportamento igienico. La tecnica così come si pratica oggi, ci racconta Taber, è stata messa a punto dal Dr. Rothenbuhler prima e dal Dr. Spivak poi. Al momento attuale vengono ritenuti scientificamente corretti due modi: il primo è congelare in freezer piccoli pezzi di favo con covata sana e appena opercolata, e poi inserirli nei favi centrali del nido della regina che si vuole testare; il secondo è congelare piccole porzioni di covata con il metodo dell’azoto liquido. Dalla capacità di ripulire la covata morta in un tempo determinato (24 e 48 ore), si deduce il comportamento igienico dell’animale.
Ma ciò che è particolarmente interessante sono le conclusioni di
Taber: “La mia esperienza è che solo una colonia su sette risulterà parzialmente HYG, ripulendo la covata morta in 48 ore. Solo una colonia su alcune centinaia ripulirà completamente in 24 ore o meno. Questa colonia è completamente HYG e non si ammalerà di peste americana o covata calcificata.” Come dire, per smorzare facili entusiasmi: la direzione è sicuramente questa, ma il cammino, già iniziato 65 anni fa, è ancora molto lungo. E Taber avverte: “Sfortunatamente ora ci sono allevatori che vendono regine propagandate come selezionate per il loro comportamento igienico e chiaramente non lo fanno in maniera corretta”. Sottolineiamo il “chiaramente”, evidenziamo che viene da dove già da molto si cerca di affrontare praticamente il problema, e chiediamoci anche il perché.
Già i Prof.ri Vecchi, Giordani e Nardi avvertivano: “In quanto alle basi genetiche di tale resistenza, sembra che essa sia recessiva, il che significa che la caratteristica tende a scomparire con l’incrocio”.(3)Questa difficoltà veniva sintetizzata in maniera chiarissima da Alessandra Baggio e Franco Mutinelli nel numero di maggio-giugno 2001 di “L’ape nostra amica”, dove scrivono: ““Per quanto riguarda le basi genetiche di questo carattere, sono stati condotti numerosi incroci e reincroci fra linee di api resistenti e suscettibili con lo scopo di individuare la dominanza o la recessività del carattere ed il numero di loci (posizioni del gene nel cromosoma) interessati. Nessun modello proposto è stato sufficientemente esaustivo da poter dare una giusta interpretazione ai risultati ottenuti. Questi studi comunque hanno permesso a Rothenbuhler di dimostrare la recessività del carattere e di scomporre questo comportamento in due fasi: riconoscimento della larva infetta ed eliminazione dell’opercolo da una parte (uncapping) e rimozione della larva infetta dall’altra (removing). L’autore ha quindi concluso che più che parlare di colonie capaci di esprimere un comportamento igienico si dovrebbe distinguere fra “removers” e “non removers” e fra “uncappers” e “non-uncappers””.(4)
Gli stessi autori confermano poi quanto già scrivevano la Vecchi e gli altri nel libro già citato a proposito della molteplicità dei fattori che influiscono sulla resistenza alla peste americana, e cioè che “la manifestazione di uno solo di essi non è sufficiente per permettere ad una famiglia di api di fronteggiare la malattia”.(5)
Attualmente sembra che l’aspetto recessivo della carattere sia messo in discussione, stando a quanto hanno affermato la Spivak a Lazise lo scorso autunno e la Palacio (una ricercatrice argentina specializzata in selezioni di api igieniche) al Convegno annuale dei professionisti nel gennaio di quest’anno a Montesilvano; e per entrambe le relazioni si rimanda alla sintesi di Barbara Leida su Lapis (6). Ma la Spivak, nell’abstract della relazione tenuta con altri in un convegno sponsorizzato da The American Association of Professional Apiculturists, a proposito della differenza del comportamento igienico fra due linee di api opportunamente selezionate, cautamente scrive che il risultato della ricerca “suggerisce (N.B. suggerisce) che la differenza misurata fra le colonie era parzialmente (N.B. parzialmente) genetica in origine” (An analysis of the variance components indicate that the main source of variation between the colonies was due to the effect of the type of backcross, suggesting that the variation measured among the colonies was partially genetic in origin).(7)
Il che è come dire che il problema torna ad essere lo stesso già perfettamente messo a fuoco dalla Vecchi: una gestione delle famiglie rispettosa delle biologia dell’ape e dell’alveare, e la conferma che scorciatoie (ancora) non esistono. Certo, può aiutare ad abbreviare un pochino la strada l’inseminazione artificiale, ma è una questione qui troppo grande solo da accennare, se non per un aspetto: quanto costa una regina inseminata? e qual è la sua capacità produttiva?
In Italia? Non siamo sicuramente all’anno zero. Già il problema era impostato in tutti i suoi termini corretti nel citato “Nozioni pratiche sulle malattie delle api”, ed oggi è più che meritevole, anzi: ammirevole, il lavoro di sensibilizzazione e di orientamento del Dott. Marco Lodesani dell’Istituto Nazionale nei confronti degli iscritti all’Albo nazionale; però Steve Taber sull’ABJ espone in maniera così chiara l’oggi, i suoi presupposti e i suoi rischi tipici di una società delle comunicazioni di massa e dello spettacolo, che mi sembrava utile cercare di riassumerlo.
E’ chiaro che, piaccia o non piaccia, questo è uno dei problemi più spinosi per chi a qualsiasi titolo si occupa di apicoltura; ed è altrettanto chiaro che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare; ma se si cerca di dire bene, è più facile che poi il fare venga meglio. E di strade non ce ne è una, ma tante quante l’uomo con la selezione e le modalità di allevamento ne saprà costruire; dopo, come l’uso degli antibiotici dimostra, tornare indietro è un bel problema: cerchiamo di far sì che il futuro vincente sia anche il migliore.
1) Per le ragioni scientifiche: G. Giordani, M. A. Vecchi e M. Nardi, “Nozioni pratiche sulle malattie delle api”, Federazione Apicoltori Italiani Ed.
2) Anche sul perché di questo vedere in “Nozioni pratiche sulle malattie delle api”.
3) Op. cit., p. 34. La cosa più chiara che ho avuto occasione di leggere sulle motivazioni genetiche è in “Queen rearing” di H. H. Laidlaw, Jr., e J. E. Eckert.
4) L’ape nostra amica, maggio-giugno 2001.
5) Per ulteriori approfondimenti si rimanda sempre a “Nozioni pratiche …”
6) Lapis n. 2/2001-supplemento al n. 8/2001 e n. 1/2002-supplemento al n. 2/2002.