i poeti e le loro poesie

Nel paese della memoria e altre poesie

Elicura Chihualaf
traduzione di Gabriele Milli

ci guardano dall’oscurità

Nella strada si susseguono
case disabitate;
ci guardano con finestre nude
e ci invitano ad entrare.
I loro abitanti se ne andarono in un
crepuscolo
facendo cerimonie
come mariti morti nell’inverno.
E là se ne rimasero le case
vedove
addormentate sotto la pioggia.

dal ricordo    a Muriel Dockendorf d.d. 1974

Chi è quest’uomo che guarda?

-Vedo nessuno
odo solo il fogliame che geme
sotto il ricordo di alcuni passi
stranamente familiari.

Chi è quest’uomo che agita il mio anello
sospeso sopra un vaso?

-Non vedo altro che una manta
un oscuro sombrero
cani che sperano di riconoscere un fischio
e la lampada arrugginita che qualche volta
illuminò il mio volto.

(Oh, come baciare questa donna che tesse
e guarda come arde il legno nella cucina
e nessuno sa le mie carezze
e tesse e tesse, mentre le teiere
ricordano le locomotive?

Poesia

Che fare, ora che i giorni passano
e non c’è orologio
e non c’è calendario? Che fare,
quando non si possono mietere i sogni
seminati dal vento
né si può rallegrare un bimbo
con un sacchetto di caramelle?
Ora che più non si crede più nell’innocenza
della neve (nella sua carrozza silenziosa)
e neppure si crede
sia un uccello bianco, gigantesco
che si spiuma o plana come un falco
sopra il mattino, che fare?

gente della terra

Nelle mani callose di genti antiche
deposito i miei versi che non hanno sipario né luminarie,
perché non sono avventura impensata di pomeriggi lugubri
e perché trascinano la loro carretta filiale
per i cammini.

la città

Questo cimitero dove tutti hanno la loro tomba
e dove tristi ombre salgono
e scendono
si accalcano
si agitano rumorose.
Come sono e chi sono i morti
che le abitano?
Con che forzato sorriso di scheletro la salutano?
Con che segreto sogno di resurrezione
l’abbandonano?

questione di pelle

Nella strada Caupolicàn una donna scopa
(le sei di mattina)
e un altro giovane appare e disappare
fra i banchi della panetteria.
Ci guardiamo di traverso,
ci riconosciamo.
Io che lentamente passo in una Peugeot504
inclino il volto…
Abbiamo la stessa condizione.

città n.3

Tu che mi vorresti solo passerotto innamorato
e melanconico,
che vaga di ramo in ramo in boschi sospesi
del cielo.
Tu che mi vorresti muratore
per la tua architettura di spuma (con porte di sospiri)
o artista di monumenti costruiti di fiori e baci
e distrutti con TNT…
Tu che mi vorresti per tante cose…!
Guardami!,
sono l’erede di montagne popolate di ossa,
di aquile cieche e forni di neve.
Sono l’erede del cammino che ancora cammina,
l’uomo ombroso e sudato.
Sono arrivato alla tua città perduta
fra insegne luminose e supermercati che regalano
televisori a colori.
E vengo e vado, spiando qualche luce,
fra gente ammutolita che sputa incoerenze
con un sorriso sulle labbra. E vengo e vado
estraneo alla tua musica color fantasia,
però sentendo il freddo dei grattacieli.
Nessuno incontro qui:
né gramigne alte e ramose
né lauri profumati
Né il mais della brocca rituale.Dove andare?
Non odo il grido augurale del chukao…
ma solo gemiti,
volpi arrugginite che ingannano e fuggono
attraverso le canalette.

ritratto notturno

Sono le nove. Il focolare è acceso,
da sotto la cenere un lieve odore di pane;
mia madre sorseggia un ultimo mate
prima di dormire.
Fuori i cavalli sgroppano
e annunciano carretti notturni.
I cani, poi, abbaieranno
con echi spenti dalla pioggia
o da lacrime versate sopra una brocca.

a volte qualcuno

A volte qualcuno domanda:
da dove venne tutto questo?
il colonialismo nuovo, la tristezza
aperta in un fiore rosso ed
eterno    la riserva di oggi
inchiodata come una spina
(la stessa che vogliono strappare)
nell’immenso cuore di
ARAUCANIA.

che fu di noi           (poesia con battute di tango
                         e tre versi di Lubisz Milosz)

E’ venuto l’inverno.
Vanno, se ne vanno le vecchie case,
hanno finito di vivere.
Ma la bandura continua a preparare
il terreno per la semina
e dalla maggese la brina
si leva confusa. Però più nessuno vuole
ancora udire lo spaventato sibilo
della pernice, che un tempo
per rallegrare le ragazze imitavamo.
I tempi sono cambiati, certo.
E quello era il paese dei vecchi libri
e della vecchia musica, nel crepuscolo
azzurro di una casa tranquilla.
E questi versi solo il segno
che qualcosa di terribile è successo:
e non è l’oblio della parola anima
e non è la morte della parola luna.

Prima fecero scomparire i nostri fratelli Onas.
Lo stesso vorrebbero fare per noi, fratelli Mapuche.

Siamo qui, amici,
passeri che non si nascondono, facile preda
dei cacciatori. Solo un’ultima opportunità,
questo cerchiamo:
nelle nostre mani il nostro destino.
Siamo lontani perché ci hanno esiliato;
ma benché non lo vogliono
nascono figli; e nel loro sangue il nostro continua.
Con loro torneremo alla terra, una sera.
(Non è la sera l’ultima età della vita?,
l’ora in cui il giorno e l’uomo aspettano in pace
la morte?) Soffia vento del sud
in un paese straniero.
Ci ricorda l’odore della cannella e del mirto.
Lo respiravamo a pieni polmoni, una volta.
Gente in città si crede padrona del vero,
padrona della lingua, la nostra,
e dei nostri costumi. E pretendono dirci
come dovremmo. Soffia il vento del sud;
ci ricorda nelle città del Cile.
Ci discriminano,
ci danno i peggiori lavori. Porgeremo noi
un’altra volta il volto perché lo colpiscano?
Da est viene il vento,
è arrivata l’ora del nostro ritorno. Berremo Muday,
berremo acqua nei pendii. La cordigliera!
Siamo tornati alle nostre terre, fratelli cerimoniosi,
perché continui la vita degli antenati.
Dove stanno?

nel paese della memoria

Retrocedono fiumi, pietre e gli uccelli
rimontano verso il basso
La cannella sacra ci ricorda orazioni
mentre le machis negli ultimi boschi
si rifugiano
Non ci sono serpenti che elevino colline appisolate
Non ci sono stelle    Solo la pallida luna
ci illumina e nasconde nel suo buio altro volto i timori
La lontra del mare guarda il silenzio
perché sa che la barca invisibile è
più forte dell’acciaio.
nel paese della memoria
siamo i figli dei figli dei figli
La ferita che duole   la ferita che si apre
la ferita che sanguina verso la terra.