apicoltori e poeti

Le api di Anselmo

Francesco Bortot

 

A Domenico Bortot e Anselmo Bolzan
Apicoltori nelle Grandi Guerre

 

A Fortunato Ballan
Che non ú tornato

 

Biadene di Montebelluna
11 febbraio 2009

 

“Nonno, nonno….Dai! Raccontaci della guerra !!”

 

Era l’invadente ritornello con cui noi nipotini rincorrevamo nonno Domenico, alpino artigliere, soldato della Prima. Quella del 15-18. Volevamo conoscere tutto, proprio tutto! E allora, accendendo la pipa in stalla o nella piccola falegnameria attigua, si lasciava andare ai ricordi, raccontava…….e ci parlava degli animali. Gli animali della guerra. Dopo tanti anni, se ci penso, non l’ho mai sentito parlare di quegli orrori che di sicuro celava in fondo all’anima.

Sapevamo invece tutto su “Moro”, il suo mulo o di quella volta che, trincerati nel fango del Grappa, mangiarono pane duro e capriolo, dopo mesi di formaggio rancido. Di quando le bestie per il peso dei cannoni, sotto una pioggia torrenziale, si impuntarono sulla stretta cengia delle Meatte ….

La preferita era, però, quella delle api. Quando in licenza, dal Piemonte in treno, si portò a casa uno sciame in una valigia di cartone. Rigorosamente bucherellata per non farle soffocare!!
“ Come hai fatto !? Ma non si è accorto nessuno !?
“ Ho messo la valigia nel sacco della biancheria ” svelava, con il sorriso sornione di chi ha imparato a cavarsela, da quando, di appena otto anni aveva sostituito il giovane padre al tiro dei buoi. Le lacrime al suono della campanella della scuola ormai irraggiungibile. I fratelli erano tanti e, a mezzadria, non c’era polenta a sufficienza.

Aveva imparato, con poco, a fare di tutto: dal fabbro al lattoniere, dal maniscalco all’ortolano e un fil di ferro, un pezzo di lamiera o di cuoio, uno spago.., nelle sue mani, grandi e callose, avevano orizzonti impensabili.
Ma era nel legno che la fantasia si scatenava. Costruiva di tutto: manici, mestoli, zoccoli, imposte, balconi, tavoli, cassettoni…ma soprattutto arnie, vere e proprie “casette” per api.
La stanza da marangoni (falegnameria in dialetto veneto ndt), era luogo di lavoro e meditazione per eccellenza nelle lunghe giornate invernali, da dove scaturivano sempre nuove cose. Odorosa di legni per ogni uso, dal tenace gelso al morbido pioppo, dal fico irrequieto al nodoso abete, stipata con ordine di attrezzi sconosciuti mi ha sempre affascinato per la possibilità di creare qualcosa di “ caldo ” e di nuovo.
E mentre imparavo pian piano a lavorare con le mani la Storia mi passava davanti: dal bossolo di mortaio su cui raddrizzavo i chiodi arrugginiti e contorti da troppe vite alla cassa di proiettili Mauser dove ordinatamente trovavano posto le pialle. Le lamiere venivano torte e arrotondate usando come incudine un perno di cingolo di Panzer tedesco, i manici per gli attrezzi, sagomati sulla mussa ( morsa a piedi in dialetto ndt ) dove lo sforzo congiunto di braccia e gambe riusciva a tornire con il fero da serci (coltello a due impugnature per sagomare assi e travi, in dialetto ndt) prese per tutte le esigenze.

Appesa alla parete, intoccabile, la borsa di cuoio degli attrezzi da innesto. Ben nascosta nel muro la scatola dei proiettili Breda e Beretta, riserva di polvere per i botti spaventa passeri e stornelli, calamità per l’uva da agosto in poi.
Tra un chiodo e l’altro l’occhio correva sul prisma di vetro di un blindato tedesco, dal soffitto ammiccavano due maschere antigas della Wehrmacht… un altro mondo.
Ma quando, di colpo, il martello mi arrivava sulle dita tornavo, saltellante, alla realtà fatta, il più delle volte, di arnie, melari o telaini . “Il legno e le api, hanno il proprio verso e le proprie esigenze che si devono rispettare altrimenti il lavoro viene male” mi diceva nonno Domenico mentre controllava la perfezione di un incastro a coda di rondine, o incideva meticolosamente con la sgorbia un fregio sul frontone dell’arnia. A cosa servissero tutti questi fregi rispondeva che …” le api vedono meglio i buchi e le incisioni sul legno che non tanti colori”.
Ancor oggi me lo ricordo quando, travasando le famiglie da un’arnia all’altra, osservo come le api tentino di entrare nella nuova dimora attraverso un nodo del legno o una sua screpolatura e rammento le prime lezioni di apicoltura seduto sotto il noce assieme al nonno, sul muretto dell’orto, a osservare l’andirivieni trafelato delle “sue” api.

Nel mondo delle api ci sono entrato, per sempre, così: dalla finestrella di vetro dei quattro bugni sapientemente alloggiati a ridosso del muro tra i cespugli di rosmarino. Nel fornire annualmente un adeguato numero di sciami sopperivano egregiamente alle perdite annuali degli alveari razionali ubicati a poca distanza.
E per noi bimbi, accoccolati nell’erba a debita distanza, lo spettacolo in quei profumati giorni di sciamatura era veder il nonno, con la pipa in bocca, ficcarci le mani in mezzo e manipolarle senza paura per sistemarle con cura in una nuova casa. Facevano parte della famiglia, le api, fonte inesauribile di aneddoti e preoccupazioni, preziose vestali di quel miele scuro e aromatico, sempre presente sul tavolo della colazione……….

……….“ Ne mangio sempre un po’ al mattino e non sono mai rimasto senza ” mi dice Anselmo facendomi strada verso la cantina dove deposito l’agognato carico e la prima impressione che hai parlandoci insieme è quella che sia una persona estremamente sensibile che con gli anni non ha perso niente di quella curiosità che caratterizza le persone intelligenti.
Le api le ha allevate da sempre con tenacia e fantasia fino al tracollo del ’94 quando: “…non ce l’ho più fatta con quella bestia lì !“ e a 74 anni ha dovuto, a malincuore, gettare la spugna: la varroa non ha risparmiato il colpo di grazia ai suoi 90 alveari.
Il caso ha voluto che mi interessassi a lui e alla sua esperienza quando Maria, mia figlia, ha fatto una ricerca per scuola sulla Seconda Guerra, e io, allergico al computer, ho chiesto ad Anselmo di raccontarla.
E ho visto anche l’antico amore per le api affiorare di nuovo nei suoi occhi alla vista degli alveari che quei giorni erano attorno alla nostra casa per la fioritura dell’acacia.
Da qui è nata l’idea che ora sta prendendo forma. Ripercorrere con lui un pezzo della mia vita di bambino e ragazzo, quando, si sa, non si perde molto tempo ad ascoltare gli adulti.

E già da subito mi sono accorto che le cose non sono poi così facili perché ci vuole preparazione per raccogliere almeno qualche briciola di una vita vissuta in modo solo apparentemente semplice ma così ricca di esperienze da riuscire per questo incomprensibile alla maggior parte di noi, abitanti del terzo millennio.
Se parli con Anselmo, dopo poche battute, ti accorgi che la guerra e la ritirata di Russia del ’43 hanno lasciato un solco profondo e indelebile.
La guerra è nel suo corpo, nel suo parlare, nei suoi occhi.

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Non l’ha piegato, ma come vento sulla roccia, lo ha inciso e solcato rendendolo capace di percepire le cose in un modo diverso.
Gli fa ancora male ricordare troppo.
Prometto allora che parleremo solo di api pur che le connessioni con quello che è successo sono, e si sente, inestricabili, anche se forse ci ha fatto l’abitudine e non se ne accorge più di tanto.
Ancor oggi che va per gli 89, non ha eliminato tutto il magazzino apistico, segno che forse di speranza ce n’è ancora. Anzi in fondo all’orto, un’arnia vuota sembra aspettare nuove inquiline “….sai l’anno scorso ho trovato uno sciame in una cassetta dell’Enel e siccome aveva già costruito i favi l’ho portato via con la porticina di plastica; al suo posto ho adattato un pezzo di tavola…..non se n’è accorto nessuno!” e ridacchia contento con gli occhi maliziosi di un bambino.
Certo, gran parte dei melari e dei coprifavi li ha ormai ridotti a legna per la stufa non senza aver prima raschiato il propoli che ha imparato a usare dai russi che in guerra medicavano i feriti.

Artigliere del 35° batteria del gruppo Valpiave, alpino della Julia, Anselmo ricorda con invidiabile limpidezza i giorni della ritirata e del sacrificio di quelle centomila gavette di ghiaccio che Giulio Bedeschi seppe raccontare perché non fossero dimenticate.
“ Siamo tornati in pochi…. tanti mi passano ancora davanti agli occhi di notte e così non riesco proprio a dormire….. Fortunato, l’infermiere della nostra batteria, scriveva ogni giorno. Sperava nella licenza agricola per tornare in Italia, a casa, nei suoi campi. L’abbiamo lasciato in una scarpata con il medico, quattro feriti la slitta e un mulo al riparo dal tiro dei pezzi russi. Non l’ho più rivisto…. ”
“ Da quel giorno con feriti e congelati ci siamo arrangiati noi. Li raccoglievamo e li mettevamo sulle slitte. Così ce l’ho fatta a portare a casa un compaesano che ho raccolto dalla neve più morto che vivo!”.
È tornato il 2 aprile del ’43, secondo di tredici fratelli, tre insieme in guerra, beneficiando di un congedo speciale come reduce dell’ARMIR: ”… il 24 giugno ero già a casa…. Mi è andata bene!”. E a casa c’erano i campi, il bestiame e quattro alveari accuditi nel frattempo dal fratello Toni che aveva già aggiornato i bugni di assicelle di legno ad arnie razionali rigorosamente di 12 telai. La passione era tale che dopo 5 anni tutte le arnie costruite erano piene di api e “… un anno grazie ad una sciamatura straordinaria non sapevo dove metterli e li riunivo così facevano ugualmente tanto miele!!”. Così in poco tempo gli apicidi sono diventati un ricordo.

In quegli anni a Montebelluna, c’era un’apicoltura avviata e attrezzata anche per fare del nomadismo a breve raggio sulla colza delle campagne circostanti e sull’acacia del Montello”. Bisognava essere accorti che le arnie fossero ben chiuse e che le api non pungessero il cavallo altrimenti sì che erano problemi !!”
Anselmo veniva chiamato ad aiutare perché con le api se la cavava e non gli davano fastidio le punture. Ritornava a casa con nuove idee, spesso originali osservazioni e ingegnosi accorgimenti che lo hanno portato negli anni ’50 a essere il più grosso apicoltore della zona: “…100 alveari nomadi qui, a Montebelluna, non li aveva proprio nessuno!” afferma con un pizzico di orgoglio.
“Una volta un amico mi regalò un boz ( bugno in dialetto veneto ndt ) e, per non travasarlo adattai una sagoma apposita per poter sovrapporre il melario. Quell’anno fece tre melari solo sulla fioritura dell’acacia “.
Non ricorda Anselmo di usi particolari della cera che il più delle volte venduta mentre Domenico, da bravo maniscalco, aveva imparato a fare un buon lucido per gli zoccoli dei cavalli usato, talvolta, per le screpolature delle mani.
Solo dal ’45 si cominciò ad andare a Treviso presso un commerciante che la lavorava a fogli.
Per pressare i favi bolliti, Anselmo, aveva adattato un torchio per la vinaccia. Fatica neanche più di tanta: solo a guadargli le mani si immagina la forza che poteva esserci. Non erano proprio mingherlini, in artiglieria, i serventi al pezzo.
Ma quello che mi ha meravigliato e ancora mi sconcerta è la capacità che Anselmo ha avuto nel saper cogliere le opportunità che le api potevano sfruttare.
”Quando ero in caserma a S. Giustina di Belluno avevo notato che le acacie fiorivano 15-20 giorni dopo delle nostre. Così nel 1948 ho noleggiato un camion e ho spostato a fine maggio una quarantina di famiglie lassù. Per andare a governarle caricavo, al mattino, attrezzi e bicicletta in treno e alla sera macinavo a pedali i 50 km per tornare a casa. Però per due anni consecutivi non ho mai fatto miele e ho lasciato perdere perché era più il costo del guadagno!”.

Da allora le api di Anselmo sono state sempre attorno a casa ”… al massimo ne spostavo qualche famiglia nella pedemontana”, a portata di mano, o meglio, di Vespa e, più tardi, con gli anni, di bicicletta per risolvere egregiamente le esigenze di trasporto. Senza incidere sul bilancio della famiglia.
Già, il bilancio! Eterno cruccio di ogni apicoltore, semplicemente risolto da Anselmo e Domenico calibrando bene le spese e utilizzando al meglio tutte le risorse a disposizione. “ Chi non bada al franco non vale un franco” soleva ripetermi il nonno a volte perplesso dai miei progetti faraonici di sviluppo apistico e a distanza di anni devo dire che in fondo tutti i torti non li aveva. Le api e l’apicoltore non amano gli sprechi e i passi più che secondo la gamba devono essere fatti come quando si cammina sul ghiaccio.
Sottile peraltro in questi anni !!
Ognuno dei due, secondo la propria inclinazione, Domenico nel legno, Anselmo nel ferro applicava alla lettera il “ fare economia ”, vitale in quegli anni per potersi fare due stanze o mandare i figli a scuola. I ritagli di tavole di giusta dimensione, i bidoni da cui ricavare le lamiere per i tetti, le lattine e ritagli di lamiera per la piccola lattoneria, i chiodi vecchi…. Tutto doveva essere ben valutato nel costo e nella realizzazione: dalla casa che ha costruito tutta con le proprie mani alle infinite piccole cose di tutti i giorni.
L’inverno era la stagione dove idee e osservazioni trovavano la giusta concretezza di applicazione nel costruire nuovi attrezzi, come lo smielatore da 20 favi, visto che quello precedente da 14 era diventato un po’ limitante, accessoriato di motore di lavatrice per sveltire e alleggerire il lavoro, riparare arnie e strumenti usurati, crearne di nuovi.
“… non trovavo mai in commercio quello che mi serviva, era sempre troppo piccolo o inadeguato alle mie esigenze, così mi costruivo quello che mi serviva!”
Visito l’officina di Anselmo e con meraviglia noto che è ancora viva. Le mensole sono colme di martelli, pinze e cacciaviti: c’è la morsa sul ceppo per lavori di carpenteria pesante, una serie di minuteria sparsa sul bancone da lavoro. Qui c’è ancora attività, limitata un po’ dalle ginocchia che fanno male, e nuove idee, vive e stimolanti. ” Devo fare un “composter” per l’umido” risponde alla mia richiesta indicandomi un grosso fusto in lavorazione, “ ma vieni che ti faccio vedere gli escludi regina. Se ti servono portali pure via.”

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È l’economia del non buttare via niente: se a me non serve più te lo do che ne puoi far buon uso. Così. Semplicemente.
Incorniciati in un telaio di legno, ma guarda un po’ a spazio d’ape, coprono solo la parte centrale del nido: il resto sono due semplici lamiere laterali: ” sopra i telai di sponda, la griglia non serve perché la regina sale solo dalla covata e così taglio un escludi regina in due pezzi e faccio due arnie; se poi c’è troppo miele sotto lo tolgo anche se è meglio che se lo mangino le api d’inverno”. Anselmo osserva e pensa prima di fare, aiutato anche da un vecchio libro che ….”dev’ essere ancora da qualche parte “.
Mentre mi accompagna a vedere la ”sua” arnia in fondo all’orto, commento il troppo fango a causa di questo gennaio fin troppo “normale” e incautamente chiedo a cosa pensi quando vede la neve. Guarda per terra e non mi risponde.
Prima, in cucina, Anselmo mi parlava dei contadini russi, della loro miseria e della loro bontà nell’accoglierli nelle isbe . “ Poveri così non ne avevo mai visti, pensa che al posto della legna bruciavano sterco di vacca secco nelle stufe per scaldarsi. Non avevano niente, neanche i letti per dormire”.
Tutto, nella Russia del ‘43, era dello Stato, anche le api, tante api dappertutto, organizzate sopra dei vagoni ferroviari che venivano spostati d’inverno, dentro a dei capannoni per ripararle dal freddo.
“ In un giorno di ritirata siamo arrivati in uno di questi ricoveri ma non ho potuto mangiare neanche un pezzo di favo perché altri avevano gia razziato i telai con il miele scuotendo le api per terra. Erano tutte morte! Per forza! Erano più di 40 sottozero!!”

E non faccio fatica a capire che in quel momento non era forse la fame ad tormentarlo bensì lo scempio di tutti quegli alveari e tutte quelle api morte.
Apicoltore anche in guerra!

L’ultima delle sue arnie, quella in fondo all’orto, è, a saperla guardare con occhio esperto, una meraviglia di tecnica ed economia apistica. Non ha niente da invidiare alle moderne e fin troppo comuni sorelle che popolano oggi i nostri apiari!
I materiali, tutti di riciclo o quasi, sono lavorati a mano con una maestria tale da stupirmi! Certo, il tempo è tiranno e i 50 o 60 anni si percepiscono tutti ma le vestigia di un lavoro fatto con cura e di una profonda passione per le api si vedono ancora!

Il legno, perfettamente stagionato al momento della costruzione, non ha lasciato spazio a fessure e crepature ed è marcito solo sul predellino dove è giocoforza venga bagnato dagli schizzi di pioggia.
La vernice è di olio di lino cotto, tinto con terre di vario colore anche se il verde è il preferito: tinta pastello che bene si ambienta nell’ambiente circostante, il tettuccio a due spioventi con larghe falde per proteggere i fianchi anche dai violenti acquazzoni estivi. Anche il vestibolo prevede una copertura con un gocciolatore per evitare di “ portar l’acqua dentro in casa.” I coprifavi a due battenti “… per non raffreddare il nido tutto in una volta quando le apri ”.

Fin qui anche troppo normale ma, sollevando la porticina, noto dietro, una griglia forata: è la griglia per raccogliere il polline che cade in un sottostante cassettino di lamiera “… in un giorno lo riempivano tutto che andava addirittura sopra !!”
Il tutto congegnato in modo che le api vedono sempre la stessa porticina per entrare e la griglia così non le disturba. Moderna tecnologia? Attuali convegni sulla produzione del polline? No, è lo spirito di osservazione di Anselmo e la ricerca di diversificare, già in quegli anni, le produzioni.
All’interno, nel rispetto assoluto delle misure una fila di chiodi a metà altezza della parete posteriore funge da distanziali per evitare spostamenti accidentali dei telai durante il nomadismo mentre il bordo superiore dove appoggiano i listelli dei telai è rinforzato da un semplice lamierino verticale per evitare che vengano troppo propolizzati ma nel contempo permetterne dei leggeri spostamenti laterali durante le visite “ …tanto per non schiacciare le api”. Il fondo, di robuste tavole, rigorosamente inclinato per far scorrere la condensa, presenta un foro in un angolo per arieggiare senza raffreddare. I quattro robusti piedistalli, regolabili in altezza, sono ripiegabili lateralmente per agevolare i nomadismi.
Ma è il nutritore che mi incuriosisce.” ..me lo sono inventato io perché quelli che si trovavano in giro erano molto scomodi ”. Mi sembra uguale a quello oggi pubblicizzato con enfasi da qualche costruttore.
Mi sto sbagliando? Assolutamente no!
Con lamierini di recupero Anselmo ha fabbricato una scatola di circa 1⁄2 litro di capienza ”…. Non ne serve tanto, un po’ alla volta, lo sciroppo di zucchero, le aiuta di più!”, stagnato con cura, con tanto di sifone interno per riempirlo, finestrella a vetro per l’ispezione visiva, galleggiante in legno bucherellato e coperchio incernierato per sveltire le operazioni. Il tutto applicato con due agganci a baionetta per poterlo togliere agevolmente. “…. le api entrano dal quel foro lì e vanno volentieri a mangiare anche nelle giornate fredde perché sul davanti la lamiera si scalda con il sole..”,

“ Vuoi puoi portarla a casa ?“ mi invita ma non me la sento, almeno per il momento. Sento che con questo gesto mi sta passando il testimone di un’epoca, di una vita di api. Ma ancora non sono pronto. Mi sembra di saccheggiare un tempo e un mondo perduto! Forse sarebbe una buona idea metterci dentro uno sciame. Tanto per vedere la faccia di Anselmo. Si potrebbe proprio fare. È poca cosa in cambio di quello che mi da. “ Non mi portare api, basta non ne voglio più- sbotta- cosa serve averle se poi non riesco a salvarle!?”
L’avevo capito! Allora è proprio come pensavo! L’amore per le api è ancora così forte che non sopporta di vederle morire in quella maniera, maciullate dalla varroa!

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Mi guarda sorpreso e incredulo quando parliamo di quante api oggi accudisco, il più delle volte da solo o con l’aiuto occasionale di Michele, non si capacita delle medie produttive e dei carichi “americani” di alveari in nomadismo. Discreto mi chiede “…ma si riesce a tirar fuori la giornata? Io raccoglievo 5-10 quintali all’anno, un anno anche 16; aiutava qualcosa in famiglia, ma da questo a vivere …. Ce ne passa!!”
L’acacia era ed è tuttora il miele più prodotto nella zona, e Anselmo conosce perfettamente la scalarità delle fioriture, dalle siepi di campagna al bosco del Montello, passando anche per la più tardiva pedemontana: “ il miele veniva quasi tutti gli anni, dal 25- 28 di aprile, in pianura, ai primi di maggio in collina, a volte facevo anche due melari, poi c’era il castagno, ben poco, e un po’ di millefiori che le api tenevano tutto nel nido perché le casse le avevo tutte da dodici.” Faccio un rapido calcolo e noto che in fin dei conti, dopo 60 anni, i tempi sono sempre gli stessi alla faccia di tutti gli allarmi ambientali e climatici che ci bombardano ogni giorno.

Nel giardino di casa, sugli alberi e in cima ai pali dell’orto, mangiatoie e nidi artificiali per gli uccelli mi incuriosiscono e Anselmo divertito mi spiega che così passeri, pettirossi, cince e tortore trovano qualcosa da mangiare e da ripararsi ”….che con questo tutto questo cemento non hanno dove andare!”. La sa lunga quest’uomo sul rispetto della natura e dei piccoli animaletti che ci circondano! E non si capacità che le cose non siano cambiate più di tanto nel tempo quando gli parlo degli enormi problemi che abbiamo con gli insetticidi usati in agricoltura. Scuotendo la testa mi fa capire che è sempre la stessa storia. “ i contadini no i capise propio gnente “
“ Qui in campagna, dai Tedeschi (tenuta agricola del luogo ndt) c’erano tanti meli e io portavo le api ogni anno lì vicino ai frutteti perché era una bella fioritura e le api andavano forte ma i trattamenti insetticidi li facevano anche in fioritura! C’erano mucchi di api morte! Così un anno le ho portate via tutte e guarda un po’ non hanno avuto raccolto !! Non c’era una mela sugli alberi!” e annuisce contento quando gli parlo della Val di Non e di come sospendano tutti i trattamenti insetticidi e diserbanti già qualche tempo prima dell’arrivo delle api ”.così se fa !!”

“ Le malattie- continua- erano poca cosa in confronto agli avvelenamenti: covata calcificata non ce n’era, peste americana qualcosa e la diarrea veniva quando le famiglie restavano piccole e d’inverno le poche api dovevano mangiare di più per riscaldarsi, costringendosi ad un lavoro disastroso per l’intestino soprattutto quando non riuscivano a uscire per un mese o due. Così cercavo di metterle riparate e al sole in modo che potessero liberarsi nelle belle giornate”. Sorrido tra me e me notando come la sua esperienza, consolidatasi 50 anni fa, sia quanto mai attuale e ritrovata in tutti i consigli sul nosema che tanti Esperti ci propinano ogni giorno da convegni e carta stampata.
Anche le regine hanno sempre affascinato Anselmo al punto tale che con rinnovata sorpresa, tra le arnie in soffitta, spunta un cassone per l’allevamento delle celle reali.
Lo guardo sbalordito. È mai possibile?
Per lui la cosa è semplice e scontata: non si capacita di tanta meraviglia e non serve tentare di fargli capire che quando lui applicava cassone, traslarvi, celle reali e arnie a doppio corpo per le fecondazioni probabilmente nessuno nel raggio di parecchie decine di km ci aveva mai provato “ …le regine me le facevo da me, magari dalle migliori famiglie, altrimenti non si poteva portare avanti niente e le casse le perdevi quando diventavano orfane.”

“ Poi qualche regina dovevi proprio cambiarla: quando diventava vecchia di tre o quattro anni non faceva più niente. Prendevo le celle di 16 giorni, pronte, e le mettevo nelle arniette da 8 a doppio scomparto per far fecondare le nuove regine”.
E tentando di ricordarmi quand’è stata l’ultima volta che ho visto una regina di quattro anni mi rivedo allora, con la curiosità dei miei 10 anni, chiedere al nonno Domenico cosa mai si portasse a letto in quel gavettino ben imbottito di cotone:
”.. sono le celle reali che mi ha dato un amico; bisogna tenerle al caldo fino a domani quando le metteremo nei nuovi sciami….” sussurrava.

Per il trasporto o altre operazioni che richiedevano l’ingabbiamento delle madri, le gabbiette erano di semplice bambù, diffuso e usato per ricavare sostegni per orto e viti, o semplici rotolini di rete sottile chiusi da un tappo alle estremità.
Parla sicuro, Anselmo, di api, di covata, di larve e di uova, snocciolando tempi di metamorfosi e giorni alla nascita di regine, fuchi e operaie.
Da far invidia a tanti.
Nel suo cauto incedere, tasta con attenzione il terreno, con la stampella, cerca aderenza e il miglior punto di appoggio. Per camminare spediti bisogna pensare dove metter i piedi, quei piedi che passo dopo passo lo hanno portato fuori dalla neve e dal ghiaccio della Russia. Quasi a ricordarci che noi oggi, con le api, ormai i passi non li misuriamo più di tanto e da loro pretendiamo sempre di più.
Perso in questi pensieri, perdo il filo di quello che mi sta dicendo:
“….poi ho cambiato un po’ la maniera di condurre gli alveari- riprende- perché nelle casse da 12 restava davvero troppo miele, soprattutto sui telai di sponda e così ho applicato due diaframmi per ridurle a 10 e anche a 8, così il miele lo portavano sopra”.
Cambiava spesso i favi perché si era accorto che, se troppo vecchi, le api nascevano più piccole, c’erano troppi fuchi che “..non servono proprio a niente e poi alle api piace costruire la cera nuova e le regine ci vanno volentieri”.
E a questo punto la spesa di andare da Longo, a Treviso, per trasformare la cera in fogli, era proprio consistente.

La soluzione, per un uomo d’azione come Anselmo, è scontata: mi faccio lo stampo. Con l’unico materiale, allora reperibile facilmente, adatto a essere modellato per quel tipo di impiego: il cemento.
L’unico difetto: ci volevano 2-3 fogli per scaldarlo a sufficienza.
“.Però in una giornata ne facevi per tutto l’anno”.
Il costo?
Naturalmente zero!!
Glielo hanno domandato in tanti, per qualche museo o per capriccio, ma non ha voluto separarsene. È stata una conquista troppo importante!

Oggi è l’11 febbraio, compleanno di Domenico, e Anselmo ha già preparato in garage tutte le sue arnie.
Sente che è venuto il momento di consegnarmele e sa che le tratterò con la cura di chi le api le ama davvero.
Dopo più di 15 anni da che ha smesso, le riconosce ancora e per ognuna c’è storia e fatica. “…. Lasciamene una per ricordo, magari quella lì che è di tavole di noce”.
Lo guardo negli occhi: ”La sistemo e ci metto dentro le api. Alla varroa ci penso io… così ho anche la scusa di passare ancora qualche volta”.

E con il sorriso di tutta una vita finalmente annuisce.

“ …se è così non ti dico neanche di no !”

Anselmo Bolzan, alpino e apicoltore.

Presente.
una nota sull’apicoltura nella Marca Trevigiana

di Stefano Dal Colle