apicoltori e poeti

Ugo Foscolo

Le Grazie, Inno I

(…)
(Nereidi)

Splendea tutto quel mar quando sostenne
Su la conchiglia assise e vezzeggiate
Dalla Diva le Grazie: e a sommo il flutto,
Quante alla prima prima aura di Zefiro
Le frotte delle vaghe api prorompono,
E più e più succedenti invide ronzano
A far lunghi di sé aerei grappoli,
Van alïando su’ nettarei calici
E del mèle futuro in cor s’allegrano,
Tante a fior dell’immensa onda raggiante
Ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude
Le amorose Nereidi oceanine;
E a drappelli agilissime seguendo
La Gioja alata, degli Dei foriera,
Gittavan perle, dell’ingenue Grazie
Il bacio le Nereidi sospirando.
(…)

Le grazie, Inno II

(…)
(Polinnia e invocazione)
Ora Polinnia alata Dea che molte
Lire a un tempo percote, e più d’ogni altra
Musa possiede orti celesti, intenda
Anche le lodi de’ suoi fiori; or quando
La bella donna, delle Dee seconda
Sacerdotessa, vien recando un favo.
Nostro e disdetto alle altre genti è il rito
Per memoria de’ favi onde in Italia
Con perenne ronzio fanno tesoro
Divine api alle Grazie: e chi ne assaggia
Parla caro alla patria. Ah voi narrate
Come aveste quel dono! E chi la fama
A noi fra l’ombre della terra erranti
Può abbellir se non voi, Grazie, che siete
Presenti a tutto, e Dee tutto sapete?

(Giano manda a invitarle)
Quattro volte l’Aurora era salita
Su l’oriente a riveder le Grazie,
Dacché nacquero al mondo; e Giano antico,
Padre d’Italia, e l’adriaca Anfitrite
Inviavan lor doni, e un drappelletto
Di Naiadi e fanciulle eridanine,
E quante i pomi d’Anïene e i fonti
Godean d’Arno e di Tebro, o quante avea
Ninfe il mar d’Aretusa; e le guidavi
Tu più che giglio nivea Galatea.

(Apollo canta)
E cantar Febo pieno d’inni un carme,
Vaticinò, com’ei lo spirto e varia
Daranno ai vati l’armonia del plettro
Le sue liete sorelle, e Amore il pianto
Che lusinghi a pietà l’alme gentili,
E il giovine Lieo scevra d’acerbe
Cure la vita, e Pallade i consigli,
Giove la gloria, e tutti i Numi eterno
Poscia l’alloro; ma le Grazie il mèle
Persuadente grazïosi affetti,
Onde pia con gli Dei torni la terra.
E cantando vedea lieto agitarsi
Esalando profumi, il verdeggiante
Bosco d’Olimpo, e rifiorir le rose,
E [scorrere] di nèttare i torrenti,
E risplendere il cielo, e delle Dive
Raggiar più bella l’immortal bellezza;
Però che il Padre sorrideva, e inerme
A piè del trono l’aquila s’assise.

(Vesta)
Inaccessa agli Dei splende una fiamma
Solitaria nell’ultimo de. cieli,
Per proprio foco eterna; unico Nume
La veneranda Deità di Vesta
Vi s’appressa, e deriva indi una pura
Luce che, mista allo splendor del sole,
Tinge gli aerei campi di zaffiro,
E i mari, allor che ondeggiano al tranquillo
Spirto del vento facili a. nocchieri,
E di chiaror dolcissimo consola
Con quel lume le notti, e a qual più s.apre
Modesto fiore a decorar la terra
Molli tinte comparte, invidïate
Dalla rosa superba.

Dite, o garzoni, a chi mortale, e voi,
Donzelle, dite a qual fanciulla un giorno
Più di quel mèl le Dee furon cortesi.
N’ebbe primiero un cieco; e sullo scudo
Di Vulcano mirò moversi il mondo,
E l’altro Ilio dirùto, e per l’ignoto
Pelago la solinga itaca vela,
E tutto Olimpo gli s’aprì alla mente
E Cipria vide e delle Grazie il cinto.
Ma quando quel sapor venne a Corinna
Sul labbro, vinse tra l’elèe quadrighe
Di Pindaro i destrier, benchè Elicona
Li dissetasse, e li pascea di foco
Eolo, e prenunzia un’aquila correva,
De’ suoi freni li adornava il Sole.

Di quel mèl la fragranza errò improvvisa
Sul talamo all’eolia fanciulla,
E il cor dal petto le balzò e la lira
Ed aggiogando i passeri, scendea
Venere dall’Olimpo, e delle sue
Ambrosie dita le tergeva il pianto.

.    .    .    .     .    .  Indarno Imetto
Le richiama dal dì che a fior dell’onda
Egea, beate volatrici, il coro
Eliconio seguieno, obbedïenti
All’elegia del fuggitivo Apollo.

(Marte caccia le muse: le seguono le api: etc.)
Però che quando su la Grecia inerte
Marte sfrenò le tartare cavalle
Depredatrici, e coronò la schiatta
Barbara d’Ottomano, allor l’Italia
Fu giardino alle Muse, e qui lo stuolo
Fabro dell’aureo mel pose a sua prole
Il felice alvear. Né le Febee
Api (sebben le altre api abbia crudeli)
Fuggono i lai della invisibil Ninfa,
Che ognor delusa d’amorosa speme,
Pur geme per le quete aure diffusa,
E il suo altero nemico ama e richiama;
Tanta dolcezza infusero le Grazie,
Per pietà della Ninfa, alle sue voci,
Che le lor api immemori dell’opra,
Ozïose in Italia odono l’eco
Che al par de’ carmi fe’ dolce la rima.
Quell’angelette scesero da prima
Ove assai preda di torrenti al mare
Porta Eridàno. Ivi la fata Alcina
Di lor sorti presaga avea disperso
Molti agresti amaranti; e lungo il fiume
Gran ciel prendea con negre ombre un’incolta
Selva di lauri: su’ lor tronchi Atlante
Di Ruggiero scrivea gli avi e le imprese,
E di spettri guerrier muta una schiera
E donne innamorate ivan col mago,
Aspettando il cantor; e questi i favi
Vide quivi deposti, e si mietea
Tutti gli allori; ma de’ fior d’Alcina
Più grazïoso distillava il mele,
E il libò solo un lepido poeta,
Che insiem narrò d’Angelica gli affanni.
Ma non men cara l’api amano l’ombra
Del sublime cipresso, ove appendea
La sua cetra Torquato, allor che ardendo
Forsennato egli errò per le foreste,
Sì che insieme movea pietate e riso
Nelle gentili Ninfe e ne’ pastori:
Né già cose scrivea degne di riso
Se ben cose facea degne di riso.
.    .    .    .    .     .    . Deh! perché torse
I suoi passi da voi, liete in udirlo
Cantar Erminia, e il pio sepolcro e l’armi?
Nè disdegno di voi, ma più fatale
Nume alla reggia il risospinse e al pianto.

.     .
.     .     .     .      .     .  A tal ventura
Fur destinate le gentili alate
Che riposàr sull’Eridano il volo.

(L’altra in Toscana … … … Speranza)
Mentre nel Lilibeo mare la fata
Dava promesse, e l’attendea cortese
A quante all’Adria indi posaro il volo
Angiolette Febee, l’altro drappello
Che, per antico amor Flora seguendo,
Tendea per le tirrene aure il suo corso,
Trovò simile a Cerere una donna
Su la foce dell’Arno; e l’attendeva
Portando in mari purpurei gigli e frondi
Fresche d’ulivo. Avea riposo al fianco
Un’etrusca colonna, a sè dinanzi
Di favi desïoso un alveare.
Molte intorno a’ suoi piè verdi le spighe
Spuntavano, e perìan molte immature
Fra gli emuli papaveri; mal nota,
Benchè fosse divina, era l’Ancella
Alle pecchie immortali. Essa agli Dei
Non tornò mai, da che scendea ne’ primi
Dì noiosi dell’uorno; e il riconforta
Ma le presenti ore gl’invola; ha nome
Speranza e men infida ama i coloni.
Già negli ultimi cieli iva compiendo
Il settimo de’ grandi anni Saturno
Col suo pianeta, da che a noi la Donna
Precorrendo le Muse era tornata
Per consiglio di Pallade, a recarne
L’ara fatale ove scolpite in oro
Le brevi rifulgean libere leggi,
Madri dell’arti onde fu bella Atene.

(Architettura)
Ecco prostrata una foresta, e fianchi
Rudi d’alpe, e masse ferree immani
Al braccio de’ Ciclòpi, a fondar tempio
Che ceda tardo a’ muti urti del tempo.
E al suono che invisibili spandeano
Le Grazie intorno, assunsero nell’opra
Nuova speme i viventi: e l’Architetto
Meravigliando della sua fatica,
Quasi nubi lievissime, di terra
Ferro e abeti vedea sorgere e marmi,
A sue leggi arrendevoli, e posarsi
Convessi in arco aereo imitanti
Il firmamento. Attonite le Muse
Come vennero poscia alla divina
Mole il guardo levando, indarno altrove
Col memore pensier ivan cercando
Se altrove Palla, …
O quando in Grecia di celeste acànto
Ghirlandò le colonne, o quando in Roma
Gli archi adornava a ritornar vittrice
Trïonfando con candide cavalle,
Miracolo sì fatto avesse all’arti
Mai suggerito. – Quando poi la Speme
Veleggiando su l’Arno in una nave
L’api recò e l’ancora là dove
Sorger poscia dovea delle bell’arti
Sovra mille colonne una gentile
Reggia alle Muse, . . . corser l’api
A un’indistinta di novelle piante
Soavità che intorno al tempio oliva.
(…)

(Donna del favo: sua cura delle api:
sua preghiera)
O giovinette Dee, gioia dell’inno,
Per voi la bella donna i riti vostri
Imita e le terrene api lusinga
Nel felsineo pendio d’onde il pastore
Mira Astrea che or del ciel gode e de’ tardi
Alberghi di Nereo; d’indiche piante
E di catalpe onde i suoi Lari ombreggia
Sedi appresta e sollazzi alla vagante
Schiera, o le accoglie ne’ fecondi orezzi
D’armonïoso speco inviolate
Dal gelo e dall’estiva ira e da’ nembi.
La bella donna di sua mano i lattei
Calici del limone, e la pudica
Delle viole, e il timo amor dell’api
Innaffia, e il fior delle rugiade invoca
Dalle stelle tranquille, e impetra i favi
Che vi consacra e in cor tacita prega.
Con lei pregate, o donzellette, e meco
Voi, garzoni, miratela. Il segreto
Sospiro, il riso del suo labbro, il dolce
Foco esultante nelle sue pupille
Faccianvi accorti di che preghi, e come
L’ascoltino le Dee. E certo impetra
Che delle Dee l’amabile consiglio
Da lei s’adempia. I pregi che dal Cielo
Per pietà de’ mortali han le divine
Vergini caste, non a voi li danno,
Giovani vati e artefici eleganti,
Bensì a qual più gentil donna le imìta.
A lei correte, e di soavi affetti
Ispiratrici e immagini leggiadre
Sentirete le Grazie. Ah vi rimembri
Che inverecondo le spaventa Amore!
(…)